lunedì 29 aprile 2013

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Tagliarsi i capelli in una lingua straniera

Posted: 29 Apr 2013 04:45 AM PDT

Aneboda

 

 

 

Storia dei capelli

 

 

Tagliarsi i capelli in una lingua straniera, in questo caso il francese, è complicato uno) perché l’equivalente della parola spuntatina non credo che esista e, se esistesse, non renderebbe comunque l’idea, due) perché in questa lingua, il francese, dessus (sopra) e dessous (sotto) sono due parole belle e distinte sì, ma vaglielo a spiegare a chi il suono francofono ‘u’ deve ogni volta reinventarselo come un pensiero senza memoria, che resetta alla fine di ogni frase quel che ha appena appreso ma non trattenuto e mai tratterrà.

 

 

Come mai lui continua ad andare da parrucchieri dove non è mai entrato prima? Come mai persevera nello sfidare la morte in questo modo? Eppure è così: persevera. Non può farne a meno. È la legge dei capelli. Ogni negozio di parrucchiere che non conosce e nel quale si avventura rappresenta un pericolo e una speranza, una promessa e una trappola. Potrebbe sbagliare e precipitare nel disastro, però, e se fosse il contrario? E se finalmente trovasse il genio che cerca?

 

 

 

 

Parigi è Parigi perché, chissà quando, e chissà se per smottamenti progressivi, o una volta per tutte, ha saputo eliminare con una gomma indelebile ogni disturbo agli occhi e per gli occhi: i panni stesi, i cassonetti traboccanti d’immondo, le doppie file, le pompe funebri, le insegne delle palestre private. In compenso, tutti i negozi di parrucchieri che pensi di meritare, pour lui pour elle pour toi. Se i capelli sono un tuo problema, Parigi è lì che ti aspetta. In teoria.

 

Nessun parrucchiere dà, né potrà mai dare, a chi va da lui a farsi tagliare i capelli, esattamente quello che vuole.

 

Come quando vai al ristorante e per leggere tutto il menu ci vorrebbe il tempo che non hai e che sicuramente il cameriere, i camerieri, non sono disposti a concederti – ma non lo vedi che sto ancora leggendo gli antipasti? – o come quando apri il giornale delle cose da fare questa settimana in città: troppo, tutto. Roba da mettere un cartello Perché questa crudeltà dello scegliere? Ma i capelli, i capelli, la necessità.

 

La prima volta, qui, ho seguito una bieca logica economica. Per settimane avendo incrociato tabelle orari e prezzi delle decine di negozi presenti a due isolati di distanza da casa mia, avendo eliminato i più cari i più scrausi i non francofoni le vecchie i vecchi i poster ingialliti, essendo infine entrato in questo salone vuoto di clienti, alla cassa una ragazza, “Certo, intanto che arriva mio padre, si accomodi al lavaggio”.

 

 

Quante volte gli è già successo di vedere la sua testa così com’è, una testa normale, con i capelli appena tagliati, e di sentirsi morire?

 

 

E arriva, suo padre, baffoni e capelli argentati, che mi guarda e mi chiede, non il canonico “Allora come li facciamo?” o un gentile “La ascolto”, non ancora perlomeno, bensì “Gradisce qualcosa da bere?” e, nella pausa vestita da abisso tra un pensiero (sono le undici del mattino), un dubbio (ma bere cosa?) e una risposta, la mia, che esita quell’istante di troppo, mi ritrovo con in mano un bicchierino di vetro, ebbro di un liquore che non ho mai sentito nominare, mentre cerco di ricordarmi se dessous è sopra o sotto o nessuno dei due e lui, suo padre, forbici e pettine in una stessa mano, sorride “Preferiva mica un caffé?” e intanto inizia a sferruzzare e gli occhi, i miei occhi nello specchio, saturi di quello stesso panico di quando mio padre mi portava dal suo barbiere e io mi guardavo allo specchio e mi vedevo fantasma, con quel lenzuolo bianco troppo grande e i piedi che dondolavano nel vuoto: che ci faccio qui? 

 

Celso parla uno spagnolo giudizioso, ordinato, talvolta ai limiti dell’udibile, come se esagerasse nella dose di calma con cui ha deciso di attenuare la bellicosa intonazione paraguayana.

 

L’ultima volta, altrove, ho fatto un primo giro di perlustrazione, ma c’era già un cliente e non avevo voglia di aspettare, così ho bighellonato un quarto d’ora, poi sono tornato e intanto che mi avvicinavo ho pensato “Se non c’è nessuno entro, sennò tiro dritto e me li taglio domani“.

 

Alla cassa, la moglie mi dice di aspettare un secondo che chiede a suo marito che forse voleva andare a pausa pranzo. Si volta, suo marito sbuca la testa dallo sgabuzzino, le fa un cenno come a dire Ok, loro non si accorgono che li sto guardando, che ci sono anche io, potrebbero anche parlar male di me e io lo saprei. Cinque secondi e l’uomo ci raggiunge. In mano ha un secchio pieno d’acqua, nell’altro un mocio, mi fa: “Si accomodi, intanto lavo un attimo l’ingresso”.

 

Ha l’impressione di capire soltanto ora cos’è un taglio: non esattamente una cesura, un’azione che limita, che pone un freno al disordine e chiude in qualche modo con il passato, ma un salto in avanti, un calcolo a priori, una visione che prefigura un orizzonte e traccia una rotta invisibile a tutti tranne che a uno solo.

 

Mi siedo, appoggio la testa, la cervicale inizia a suonare d’allarme come al solito, la moglie mi chiede se l’acqua ça va, mi lava i capelli con gesti secchi, sbrigativi, chissà se nell’intimità è pure così, penso, se i suoi gesti sono secchi, sbrigativi o se piuttosto è solo una posa per sfuggire all’infamante etichetta di shampista, intanto sono già seduto con il lenzuolo bianco attorno al collo, il barbiere mi guarda, fa la domanda “Allora?” ma lui non attende la risposta, perché è distratto da un dettaglio alle sue spalle, si volta “La ascolto, mi dica, mi dica pure” ma intanto non mi sta ascoltando manco per un cazzo, io sto per affidare la mia vita nelle mani di questo sconosciuto e lui ha l’attenzione altrove, un pezzo di pavimento che non ha finito, mi dice “Un attimo, mi scusi, arrivo subito”, riprende il mocio e torna a lavare il pavimento, che in questo momento è la cosa per lui più importante del mondo, sicuramente più dell’unico suo cliente di adesso, io, che lo guarda tra l’indispettito e il divertito, i capelli, lunghi e bagnati ancora per poco, e dopo, tra un attimo, io, risponderà alla fatidica domanda non con un canonico “Stesso taglio, solo un po’ più corti” ma con un inaspettato: “Lei che mi consiglia?”.

 

 ***

 

Storia dei capelli (Alan Pauls, Ed. Sur, traduzione di Maria Nicola) è un viaggio programmato, pure tu che non leggi le trame e i riassunti e le fascette e l’unica cosa che provi per i galoppini costretti a scrivere le trame e i riassunti e le fascette è pietà, pure tu che non vuoi inquinarti di aspettative o immagini prima del tempo, ecco, la verità è che di aspettative a tradimento il mondo è delimitato, e anche un libro che si chiama Storia dei capelli, o Historia del pelo, e che inizia con “Non c’è giorno che lui non pensi ai capelli”, una linea dritta nel tuo cervello esausto di schemi e di caselle te la tira, dritta in fronte, per forza, ma poi, dopo aver preso un gran bel respiro che duri il tempo che serve, capisci che a volte va così, pensi di aver un libro tra le mani e invece hai una storia che ti porta dove non avresti mai pensato.

 

***

Altri libri su Aneboda:

 

David Bezmozgis, Il Mondo Libero, Guanda 

 

 

 

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